In 6 su 10 non vorrebbero un collega con Hiv

In 6 su 10 non vorrebbero un collega con Hiv

il 58% degli intervistati in una recente indagine sarebbe a disagio nel lavorare a fianco di una persona sieropositivaNell’indagine ‘Is Hiv sorted’ – condotta su 24.212 adulti residenti in 9 Paesi dell’Europa occidentale (Italia inclusa) e 6 dell’Est Europa, commissionata da Iapac (International Association of Providers of Aids Care), Fast-Track Cities e Gilead Sciences – quasi la metà (43%) degli intervistati residenti in Italia ignora che l’Hiv sia un virus e solo il 37% è in grado di definire in modo corretto la sindrome da immunodeficienza acquisita, mentre circa un quarto dei cittadini (27%) ritiene che Hiv e Aids siano sinonimi. Il fenomeno diviene ancora più preoccupante se si considera che l’87% degli adulti non si ritiene a rischio di contagio e che il 60% non ha mai eseguito un test Hiv, mentre il 40% di coloro che l’hanno eseguito almeno una volta l’ha fatto più di 5 anni prima. La mancata percezione del rischio e delle misure di prevenzione si associa ad un approccio negativo nei confronti delle persone con infezione da Hiv, si legge in una nota. Ma proprio questo atteggiamento allontana dal test e può frenare le persone sieropositive dall’accedere precocemente alle cure, fondamentali anche per prevenire la trasmissione. Una terapia antiretrovirale efficace, che porta a livelli di virus nel sangue non misurabili (soppressione virale) per almeno 6 mesi consecutivi, vuol dire che il virus non è trasmissibile dalla persona sieropositiva a un partner sessuale sieronegativo, fatto noto – secondo il sondaggio – solo a un misero 16% degli intervistati. “Sebbene negli ultimi 2 anni si sia registrato un lieve calo delle nuove diagnosi, il tempo che intercorre tra l’infezione e la diagnosi si mantiene costante e sfiora mediamente i 5 anni. Questo fenomeno favorisce il perdurare dell’epidemia e dimostra, ancora una volta, che la percezione del rischio tra la popolazione è bassa”, dice Franco Maggiolo infettivologo presso l’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la seconda città italiana Fast-Track. Il Progetto Fast-Track Cities prevede l’istituzione di una rete di collaborazione globale tra più di 350 città con alta prevalenza di infezione da Hiv, la Iapac, l’Unaids (Joined United Nations Programme on Hiv/Aids), l’Un-Habitat (United Nations Human Settlements Programme) e la città di Parigi. L’iniziativa è stata lanciata in occasione della Conferenza mondiale Aids del 2014 e il progetto permette a comunità urbane di tutto il mondo, sottoscrivendo la Dichiarazione di Parigi, di entrare a far parte di un network virtuoso, mirato a favorire diagnosi e trattamento precoci.https://www.adnkronos.com/salute/medicina/2019/06/06/non-vorrebbero-collega-con-hiv_6l8CFCk7iv0tHqvB3OTbXN.html?refresh_ce